di Giovanni Michetti, Sapienza Università di Roma
(da LuBeC 2021)
I processi di digitalizzazione del patrimonio culturale richiedono figure in grado di padroneggiare nuovi strumenti e tecniche. Tuttavia la digitalizzazione non è riconducibile ad una mera attività di scansione degli oggetti materiali. Digitalizzare significa migrare in un nuovo ambiente un corpus che è individuato non solo dagli oggetti nella loro corporeità, ma anche dal contesto in cui sono immersi tali oggetti. La digitalizzazione del patrimonio culturale è dunque una traduzione nel senso etimologico del termine, cioè uno spostamento, mirato a condurre in ambiente digitale un’intera realtà culturale.
Pertanto l’attore fondamentale non è l’esperto che sappia governare i parametri tecnici, ma piuttosto l’analista che sappia interpretare, trasformare e adattare al nuovo ambiente processi e prodotti. Per certi versi, serve più una sorta di mediatore culturale che un digital archivist, un digital librarian, un digital qualunque. In questo senso, non abbiamo bisogno di nuove figure professionali, bensì di nuove e rinnovate capacità di interpretare la funzione e le competenze professionali. Non si tratta cioè di uno skill in più. Si tratta piuttosto di trasformare le funzioni tradizionali e di esaltare la dimensione abilitante delle competenze. Occorre cioè lavorare sulle funzioni e non sui profili. Per tale motivo la divisione tra professionisti tradizionali ed emergenti appare inadeguata: la vera sfida è il rapporto tra nuove competenze e processi organizzativi. Anche l’attenzione esasperata al digitale – appunto, il digital archivist, il digital librarian, le digital humanities – come fattore caratterizzante della trasformazione in corso, è fuorviante. E non perché non sia affatto chiaro quale sia lo statuto disciplinare o le specificità di queste supposte nuove figure professionali, ma perché è necessario considerare il digitale non come attributo bensì come sostanza dell’identità di una professione o di una competenza. Noi siamo digitali, anzi, siamo cibernetici. Siamo sistemi complessi, produciamo e abitiamo sistemi complessi, ove il confine fra biologico e digitale si fa sempre più labile. Come suggerisce Luciano Floridi, viviamo onlife in un mondo iperconnesso dove non esiste più la distinzione tra online e offline. In un mondo del genere, ha ancora senso usare l’attributo digitale per qualificare una professione o una disciplina? Per certi versi il digitale appare quasi una categoria novecentesca: non riusciamo nemmeno a immaginare un mondo senza bit. Noi siamo digitali, e il processo è irreversibile. Perché dunque si usa un attributo, che è la nostra stessa sostanza, per definire una figura, una disciplina, una competenza? Tale prospettiva rende alieno un carattere che invece è ormai parte della nostra natura. I programmi formativi devono puntare a gestire la complessità: la soluzione non è qualche corso in più di informatica. La strada giusta è l’ibridazione ab origine. Siamo digitali, ergo qualunque insegnamento dovrà essere digitale. In questo senso, non esiste il digital archivist: o si è archivisti digitali o non si è. Per andare incontro al futuro abbiamo bisogno di capacità progettuale e di una visione. Va bene saper utilizzare strumenti e servizi; e va bene integrare le tecnologie digitali nel profilo professionale. Ma ricordiamoci che noi siamo chiamati a governare processi: JSON, XML, Python et similia non sono la soluzione. La chiave è una sana e robusta trasformazione digitale delle competenze tradizionali.