Economia e cultura: a che punto siamo oggi?

di Franco Broccardi, Dottore commercialista, co-fondatore di BBS-Lombard

Mi fa molto ridere il fatto che in un convegno in cui si parla di cultura il primo a intervenire sia un commercialista. Ci fa capire a che punto siamo messi nel mondo culturale italiano: non benissimo direi. Partiamo proprio male. In questi giorni mi sono posto alcune domande: siamo proprio sicuri che la cultura impatti sull’economia di un territorio? E se impatta, siamo sicuri davvero che sia un impatto positivo?

Sono domande che dovremmo cominciare a porci. Dal punto di vista economico, la cultura apporta certamente benefici; ma direi che molto più spesso è il turismo che ne deriva a farlo, non la cultura stessa. Quali sono dunque i benefici della cultura, perché investire in essa? Perché il settore pubblico deve farlo? Perché i privati e le imprese, che lo stanno facendo in maniera sempre maggiore e sempre più consapevolmente? Perché non si tratta solo di economia, o meglio, non di economia diretta.

Mi è venuto in mente un saggio del ’72 del nobile della fisica Philip Anderson: scriveva che noi possiamo studiare benissimo i singoli elementi di un sistema, ma nel momento in cui li mettiamo insieme, tutto quel che abbiamo studiato viene meno perché trasfigurato in qualcos’altro. Questa è la cultura, questi sono i temi che quest’anno trattiamo a LuBeC: una sostenibilità che non è solo quella economica o ambientale o sociale, ma che è la somma di tutti questi tre elementi. È come un tavolino con tre gambe: se ne manca una, non sta in piedi. Quindi sì, possiamo ragionare da un punto di vista economico, ma probabilmente troveremmo delle brutte sorprese. È un punto di vista che ha senso nel momento in cui lo andiamo a rapportare ad altri elementi.

La cultura ha un impatto ambientale, di cui molto spesso non si parla. L’altro giorno sono andato a vedere il concerto di Björk a Milano, sui temi dell’ecologia. È uno spettacolo che in Islanda – il paese di Björk – non può essere messo in atto perché dal punto di vista ambientale non è sostenibile da quel paese. Abbiamo delle contraddizioni: nel momento in cui parliamo di cultura dobbiamo tenere ben presenti tutti gli elementi, o gli scivoloni saranno immediati. La cultura impatta i territori? Sì, effettivamente. La fiscalità può aiutare? Sì, la prima cosa che viene in mente è l’Art Bonus, che però ha dei problemi: avrebbe dovuto funzionare bene nei piccoli borghi perché è qualcosa che funziona sul sentimento di comunità: se c’è da ristrutturare un bene, sento che quel bene è anche una cosa mia. Questa realtà nei piccoli borghi non ha funzionato perché, pur essendo un progetto molto semplice, nei piccoli comuni non è conosciuto. Alla fin fine ha funzionato per i soggetti che già ricevevano finanziamenti: è facile finanziare il restauro del Colosseo! È molto più difficile finanziare una statua all’interno di un paese di 400 abitanti, trovare i fondi per quello. Su questo ci sarà da lavorare, con Ales lo stiamo facendo.

L’impatto economico su un territorio esiste, va migliorato, non può essere solo un impatto legato al denaro, non va pensato in quel senso, ma a quanto la cultura fa star bene le persone che vivono in quel territorio. Le ricadute sono molto diverse: è molto di moda dire che la cultura cura, il ché è vero, ci sono evidenze scientifiche.

Una delle proposte avanzate con FederCulture – che da anni portiamo avanti, lo avevo proposto in un convegno al Ministro Franceschini, che mi aveva guardato come un pazzo – era quella di defiscalizzare le spese culturali, ovvero: se la cultura fa bene alla salute perché rallenta l’invecchiamento e diminuisce le possibilità dell’Alzheimer, allora è una medicina. Quindi perché non trattarla come una spesa medica in dichiarazione dei redditi? Ci stiamo lavorando anche insieme a Umberto Croppi, anche se non c’è ancora grande disponibilità. Però lavorare sui temi fiscali ed economici della cultura ha senso, c’è un riflesso che va però visto in maniera molto più ampia, come giustamente diceva anche Scognamiglio nell’introduzione: lavorare nella cultura vuol dire contemplare uno spettro molto più ampio, che non è quello del semplice aspetto economico, ambientale o sociale; ma è sempre la somma di tutte e tre le cose.

Che poi, la sostenibilità economica è raggiungibile in qualsiasi mercato. Come? Attirando le persone e facendole sentire partecipi di qualche cosa. Se la cultura si pone come qualcos’altro, sarà difficile diventare un soggetto economicamente sostenibile.

Kimberly Latrice Jones, una delle maggiori attiviste del movimento Black Lives Matter, quando le domandavano perché bruciasse il suo quartiere, rispondeva: «Perché questa roba non è nostra.» Se non c’è un senso di appartenenza – e vale per qualsiasi tipo di mercato, non solo quello culturale – se non siamo contemporanei e non sappiamo parlare alle persone presenti in questo momento, come possiamo pensare che le persone “comprino” cultura? Come possiamo pensare che sia un fattore attrattivo? C’è qui il Direttore del Museo Egizio: perché funziona? Perché pur parlando di qualcosa che non ci è vicino, che non è contemporaneo – l’Egitto antico – ne parla con una particolare ascoltabilità, soprattutto verso i più giovani, che sono i mercati del futuro.

Sulla questione della produzione, da quello che diceva Fabio riguardo all’essere attori in quello che si va a vedere, saper utilizzare gli strumenti di comunicazione e i linguaggi propri del mondo contemporaneo, da qui si passa alla capacità di saper produrre qualcosa di attrattivo e sensato. Dopodiché diventa tutto molto più veloce ed effimero, ce lo conferma Fabio Viola. Nel momento in cui produciamo qualcosa, se vogliamo che qualcosa funzioni nel brevissimo periodo, quest’oggetto deve avere senso e comprensibilità, altrimenti non avrà effetto né economico, né sociale, forse solo ambientale. Il mondo culturale deve lavorare in questa direzione: cambiare passo rispetto a quel che è stato fatto una volta.

Infine, per tornare ai musei: non possono essere solo luoghi espositivi, o sarebbero zoo con opere in cattività. Devono essere luoghi di produzione artistica e di pensiero. Da lì passano tutti i discorsi che abbiamo fatto finora.

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