di Federico Giannini, Direttore Finestre sull’Arte
(da LuBeC 2020)
Il tema di LuBeC 2020 è “Ripartiamo con la cultura, ripartiamo per la cultura”. Tuttavia, l’intento di ripartire con la cultura comporta una rilevante serie di problemi. Per introdurre il primo, ovvero il sostanziale disinteresse nei confronti della cultura, è possibile citare un post che il grande museologo Hugues de Varine ha pubblicato sul suo blog lo scorso 16 settembre: “Bisogna convincersi di un dato di fatto”, sostiene De Varine: “la cultura non fa parte delle attività essenziali per la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne della nostra epoca”.
De Varine afferma sostanzialmente che la cultura non è una priorità: lo si è visto, per esempio, nel corso della crisi economica del 2007-2008, quando le singole persone hanno tagliato le spese per recarsi al museo, per andare a teatro, per vedere un film al cinema. Occorre purtroppo constatare che la cultura è uno dei primi settori su cui si taglia nei momenti di crisi: è così per i cittadini, ma è così anche per la politica, che peraltro negli ultimi anni ha impostato una narrazione della cultura legata per lo più al suo potenziale turistico. Inoltre, la cultura non è una priorità neppure per i media: limitando gli esempi alla televisione (ovvero al mezzo più utilizzato dagli italiani per informarsi), chi, durante un talk show televisivo, negli ultimi tempi ha mai sentito parlare di cultura (di musei, per esempio)? o chi ha mai visto, nel corso di un telegiornale, un servizio ben strutturato in cui si parli di una mostra o di un dibattito culturale? Al massimo, la cultura entra in televisione quando c’è da consigliare un museo o una mostra da visitare nel fine settimana. Questa è, a grandi linee, l’odierna percezione che si ha della cultura, e questo è il primo problema: si può e si deve ripartire dalla cultura, ma in un momento di crisi come quello che stiamo attraversando diventa tutto più complicato per il fatto che i cittadini tagliano le loro spese personali, la politica spesso non garantisce un sostegno adeguato al settore, e la cultura non è uno degli argomenti più interessanti per i media generalisti.
Per introdurre il secondo problema, entrando più nello specifico dei temi che riguardano l’engagement tra musei e territori, è possibile rifarsi a una citazione, del 1971, dell’economista Herbert A. Simon: “In un mondo ricco di informazioni, l’abbondanza d’informazioni comporta la scarsità di qualcos’altro: la scarsità di un elemento dipende da ciò che l’informazione consuma. E quello che l’informazione consuma è piuttosto ovvio: consuma l’attenzione dei suoi destinatari. Quindi un’abbondanza d’informazioni crea povertà d’attenzione”. Si può ben immaginare cosa voglia significare tutto ciò nell’odierna civiltà digitale, dove tutti sono online (e ciò vale anche per chi non ha competenze tecniche: non importa se la strumentazione adoperata dall’utente è molto sviluppata o è basilare, perché ormai chiunque ha accesso alla pubblicazione dei contenuti, e tutti concorrono a ritagliarsi uno spazio sui social o più in generale sul web). Ci troviamo dunque in un contesto in cui la competizione per farsi notare in rete ha raggiunto livelli mai toccati in precedenza.
Come possono allora i musei e gli istituti culturali reagire a questi due problemi, ovvero il disinteresse e la competizione per catturare l’attenzione del pubblico? Ci sono istituti che, con approccio piuttosto empirico, hanno puntato sull’obiettivo di ritagliarsi un posizionamento mediatico somministrando costantemente contenuti “rumorosi”. Pensiamo, in questo caso, al fenomeno del “vip al museo”: l’istituto, tramite ufficio stampa, diffonde ai media la notizia che il personaggio di turno arriva in visita, e ottiene attenzione suscitando clamore. I critici lo ritengono uno strumento che banalizza l’esperienza del museo, o un semplice modo per attirare l’attenzione (ma, del resto, l’obiettivo è proprio questo). Ritengo si tratti di uno strumento comunicativo da non demonizzare: è del tutto legittimo e non bisogna fare l’errore di pensare che la catalizzazione dell’attenzione del pubblico avvenga mediante induzione a comportamenti imitativi. Ovvero, non si deve pensare che il visitatore voglia andare al museo perché, siccome vi si è recata Chiara Ferragni, allora, per imitarla, anche lui decide di andare al museo. La visita del vip è, in realtà, una sorta di promemoria: l’utente vede la foto del personaggio famoso sui social, legge l’articolo del Corriere della Sera, de Il Sole 24 Ore (o, nel nostro caso, di Finestre sull’Arte) e attraverso questi contenuti è possibile riattivare un’attenzione nei confronti del museo che magari in quel momento si era sopita, e invogliarlo a scoprire che cosa il museo sta proponendo in questo periodo. O magari a scoprire il museo tout court: se pensiamo agli Uffizi, di certo non si tratta di un museo poco noto, ma questo modo di fare comunicazione può garantire risultati non trascurabili a un piccolo museo. Quest’estate, per esempio, il Museo delle Statue Stele di Pontremoli è stato visitato da Zucchero e Sting, che abitano in Lunigiana: il museo ha postato sui social le foto e si è attivato un meccanismo virtuoso di condivisione dei contenuti del museo. Di durata, certo, limitata nel tempo, ma comunque sufficiente per fare da attivatore: e le persone che si recano al museo a seguito della circolazione di questi contenuti non lo fanno certo perché sono tutti fan sfegatati dei cantanti in questione (sarà così per una piccola parte del pubblico). Per la maggior parte delle persone si tratta semplicemente di un promemoria, o di un modo per venire a sapere dell’esistenza del museo.
È tuttavia una modalità di comunicazione piuttosto antica e anche piuttosto spartana, tornata d’attualità grazie al buzz generato dai social attorno alle visite “vip”. Ci sono comunque musei che adoperano strategie più raffinate e per certi versi molto più interessanti. A questo punto potrebbe essere utile introdurre il concetto di “narrazione transmediale”, ovvero “una storia che si sviluppa attraverso diverse piattaforme mediali, dove ogni nuovo testo fornisce un contributo distintivo e prezioso per l’intero sistema” (Henry Jenkins). Un’azienda che applica in maniera massiccia la narrazione transmediale per promuovere i suoi prodotti è la Disney: il suo prodotto non è costituito solo dal film del momento, ma anche da tutto ciò che lo accompagna. Per esempio, il videogioco, il libro per i bambini, il menù a tema lanciato in collaborazione con la catena di fast food, il merchandising, il sito web, le video-pillole sui social: in breve, una serie di contenuti che compongono uno stesso universo, diffuso attraverso diversi canali per raggiungere il pubblico in maniera capillare e trasversale.
Si può applicare la narrazione transmediale ai musei o alle mostre? Ovviamente sì, e lo si fa suddividendo l’universo che gravita attorno a una mostra o a un museo in vari canali: attività per il pubblico, catalogo, documentari, merchandising, pubblicità tradizionale, social media, applicazioni per dispositivi mobili, contenuti audiovisivi, installazioni video, scrollytelling, e via dicendo. Applicare la narrazione transmediale ai musei e alle mostre significa pensare al museo o alla mostra come a un unico universo composto da tante realtà che dialogano tra loro e contribuiscono a restituire un’immagine unitaria del prodotto che intendiamo posizionare.
Un esempio viene da quella che, a mio avviso, è una delle iniziative più innovative che ci siano oggi sul panorama italiano, i Rolli Days di Genova, ovvero una manifestazione che, per due fine settimana l’anno (in primavera e in autunno), apre al pubblico le porte dei palazzi storici di Genova (si chiamano “Rolli” perché nel Seicento erano inseriti in una serie di elenchi, i “ruoli” o “rolli”, dai quali veniva estratto il nome della famiglia che poteva ospitare le figure importanti in visita a Genova). Questi palazzi si sono conservati in maniera più o meno ottimale e appartengono a soggetti di diversa natura: pubblici, privati, dimore storiche, università, e così via. Ed è interessante rilevare che, per cinque-sei giorni all’anno, queste realtà così diverse e spesso lontane collaborano tra loro per confezionare un evento che viene suddiviso in diverse componenti che gravitano intorno ad un unico universo: ci sono pertanto i video sui social o gli eventi dal vivo (quest’anno addirittura è stato fatto uno spettacolo di danza a tema Rolli), vengono coinvolti ristoranti e bar con menu ad hoc, c’è la possibilità di vivere la “Rolli Experience” (ovvero dormire nei palazzi che lo consentono e giovarsi di una serie di benefit come visite esclusive con divulgatori qualificati), ci sono i canali social, il sito web, i video divulgativi e diversi altri contenuti. Si tratta di contenuti che concorrono a comporre un universo molto interessante: quest’anno, con il Covid, gli ingressi saranno contingentati e dunque i numeri saranno più contenuti, ma normalmente questo evento attirava tra i 90 e i 100’000 visitatori per edizione.
Un altro progetto interessante è quello di Toscana Promozione, l’ente di promozione turistica della Toscana, che si è posta il problema di dover veicolare un contenuto capace di far passare l’idea che gli Etruschi fossero un popolo “contemporaneo”, ovvero con una mentalità che per certi aspetti non è così lontana dalla nostra. Ed è riuscita nel suo intento non soltanto con percorsi turistici pensati ad hoc, ma anche con alcuni strumenti precisi e multicanale: ha prodotto infatti un videogioco, ha commissionato serie di video diversificati per pubblico, ha fatto promozione tramite comunicazione social e giornali di settore, ha patrocinato rievocazioni storiche (chi conosce il turismo sa che si tratta di eventi che attirano grande attenzione), e anche cene a tema.
Sin qui, abbiamo visto una manifestazione culturale e un percorso turistico: cosa fanno invece i musei? Un museo che si muove molto bene sull’engagement, e che ha triplicato i suoi ingressi negli ultimi anni, è il Museo Archeologico Nazionale di Napoli: in questo caso abbiamo una comunicazione social molto diversificata, iniziative calibrate in base all’offerta del museo e al canale scelto, mostre interessanti come Canova e l’antico che vengono promosse affiancando pubblicità tradizionale a comunicazione sui social, attività rivolte alla comunità locale (quali laboratori per le realtà svantaggiate della città), un videogioco e molto altro. Si potrà dire che il MANN è un museo grande, ma la transmedialità può essere ben applicata anche da musei meno visitati o di dimensioni più contenute, come la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, un museo che punta moltissimo su eventi, laboratori, incontri, conferenze e collaborazioni (ad esempio ospita numerosi concerti del festival Umbria Jazz): il direttore Marco Pierini, in una recente intervista che gli ho fatto, ha detto che la GNU è “il museo statale più civico che esista”, proprio perché le attività sono rivolte soprattutto al pubblico locale. Chiudo con questo esempio per rimarcare l’importanza delle attività che si fanno per un pubblico locale: il MANN pensa alle sue attività per le comunità; i Rolli Days attirano sì molti turisti, ma il pubblico è composto principalmente da cittadini di Genova o della regione; il percorso sugli etruschi di Toscana Promozione è stato in grado di attirare un turismo di prossimità dalle dimensioni importanti. Concludo con questa citazione di un altro importante museologo, Sandro Debono, che credo possa riassumere il senso del mio intervento: “Non esiste una formula prestabilita per la transmedialità: tutto ha a che fare soprattutto col miglior modo che scegliamo per raccontare una particolare storia ad un particolare pubblico in un contesto preciso sulla base delle particolari risorse disponibili. Per il pensiero transmediale, tutti i media, siano essi vecchi o nuovi, hanno una loro rilevanza, e se ne può fare buon uso.” (Sandro Debono, 2020). Grazie.