di Annalisa Cicerchia, Economista della cultura – Primo ricercatore ISTAT
Le mie riflessioni partono da un progetto che stiamo seguendo in Istat, e al quale hanno lavorato Roberto Fantozzi e Simona Staffieri, sulle nuove forme di welfare, e si aggancia a un altro, più vasto, programma, nel quale la cultura è vista come dominio portante nella definizione del benessere.
L’Istat ha infatti avviato da circa dieci anni, in raccordo con il CNEL, un programma di misure del benessere – BES: Misure del benessere equo e sostenibile – che fa parte del tentativo di superare il PIL come unica metrica di misura del progresso. Mentre molti paesi si sono impegnati in progetti di questo tipo, solo nel progetto italiano la cultura e il paesaggio sono considerati una struttura portante del benessere. Ogni anno viene pubblicato un rapporto ISTAT in cui si misurano, secondo 128 indicatori, vari aspetti del benessere in Italia. Si fa riferimento alla cultura in base a vari indicatori: partecipazione culturale come capitale umano, numero occupati nelle imprese culturali e creative, misure a sostegno della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale. Sono tentativi non definitivi, ma comunque passi avanti. Parlerò quindi della partecipazione culturale come fattore protettivo e del welfare culturale in relazione alla soddisfazione per la vita, con particolare riferimento agli anziani e ai processi di invecchiamento attivo. Il recente report (novembre 2019) dell’OMS, che sancisce l’importanza della pratica culturale per la salute, fa riferimento a studi su due tipi di fenomeni, molto diversi: da una parte la pratica culturale delle persone (più intensa fra gli individui con alti livelli di istruzione e reddito), e i suoi effetti protettivi e di promozione della salute a medio e lungo termine; dall’altra, le forme di attività culturale sistematicamente orientate al conseguimento di alcuni specifici obiettivi di benessere e salute. Qui si introduce un tema importante di disuguaglianza, di cultural divide che è anche health divide. Dobbiamo ricordarci che in Italia il 28% delle persone non hanno mai svolto un’attività culturale nel corso di 12 mesi. Mai stati al cinema, mai letto un libro, mai stati ad un museo o un concerto, il contatto con la cultura è solo quello radiofonico o televisivo. C’è un gap terribile in Italia, e il lockdown per il contrasto alla pandemia ha aggiunto un ulteriore abbandono a se stessi delle persone, più isolate da questo punto di vista. Essere lasciati a se stessi significa essere tagliati fuori. Le attività culturali svolte in casa sono poverissime, secondo i dati ISTAT dell’indagine flash fatta proprio durante la fase 1. C’è un tema di disuguaglianza e giustizia sociale, molto caro a noi come Cultural Welfare Center. Meno cultura, meno speranza di vita in buona salute. Il paese è profondamente disuguale da questo punto di vista: l’urgenza di intervenire è elevata.
Il contesto demografico dell’Italia mostra un processo di invecchiamento continuo. Qualsiasi scenario futuro dovrebbe prepararsi ad affrontare una domanda crescente di benessere per gli anziani. La partecipazione culturale contribuisce direttamente ad alcune componenti fondamentali dell’invecchiamento attivo: l’inclusione, l’indipendenza, la capacità di profittare dei fattori ambientali che più giovano alla propria salute. Lo studio che stiamo svolgendo in Istat ci dà uno sfondo importante, perché contiene informazioni sia sui livelli di partecipazione culturale, sia sui livelli di soddisfazione per la propria vita e salute. Sono in grado di dire che l’associazione tra questi due elementi è diretta. A parità di condizioni di reddito, di condizioni di salute, assenza o presenza di disabilità e di residenza, la partecipazione culturale si associa a livelli sempre regolarmente maggiori di soddisfazione per la vita e per la salute che diventano molto significativamente più alti per le persone dai 65 anni di età in poi. Abbiamo fatto un approfondimento sulle persone con disabilità gravi e nelle peggiori condizioni (basso reddito, basso livello di istruzione, appartenenza a famiglie monocomponente, residenza in piccolissimi centri), e abbiamo rilevato anche tra loro che una partecipazione culturale maggiore si accompagna ad una valutazione relativamente migliore delle proprie condizioni di salute e di soddisfazione per la vita. Il modello italiano di servizio sociale è fondato sui trasferimenti: si preferisce dare soldi alle famiglie, sulle quali ricade la massima parte dell’onere della cura e dell’assistenza, piuttosto che dare servizi. Allo stesso tempo l’Italia ha una rete capillare di circa 13.000 biblioteche e un arcipelago, altrettanto capillare, di circa 5.000 musei, di cui 2.000 piccoli o piccolissimi. In questi presidi di servizio culturale potrebbe essere interessante che venisse gestita – come accade già in numerosi casi benemeriti – almeno una parte delle prestazioni di tipo socio-sanitario legate più a cause di tipo socio-culturale che clinico in senso stretto. Nel Regno Unito, secondo una ricerca di recente diffusione il 30% di richieste fatte al medico di base sono richieste non mediche, ma ascrivibili per esempio al supporto socio-psicologico e si ritiene che possano essere gestite da enti culturali del territorio, permettendo ovviamente la collaborazione del contesto sanitario. Una quota importante di domanda di assistenza da parte degli anziani per esempio potrebbe trovare una risposta adeguata attraverso la partecipazione ad attività artistico-culturali. La direzione ci conforta perché conferma le evidenze e gli orientamenti risultanti da questi studi internazionali.